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La pancia, metaforica e reale, della politica italiana

Toni pacati, larghe intese, fair play, almeno apparente, tra vincitori e vinti, persino un ricambio generazionale che riaccendeva le speranze. Fino a qualche settimana fa la politica italiana sembrava vivere un’ inusuale, seppur breve, stagione di toni moderati. Da qualche giorno però la musica, per non dire il frastuono, è tornata quella di un tempo, quella a cui le nostre orecchie sono ormai più abituate. La politica è di nuovo emotiva, più di “pancia” che di testa, complice l’acceso dibattito sulla legge elettorale. In breve tempo ci sono stati ritorni, dimissioni, rotture e i toni si sono di alzati.

Ci sono Stefano Fassina e Gianni Cuperlo che mal sopportano le uscite del segretario Renzi, indiscusso protagonista e regista del dibattito attuale, e si indispettiscono al punto di preferire le dimissioni. C’è Silvio Berlusconi, l’Araba Fenice alla sua ennesima rinascita, che torna in scena, come sempre, da protagonista e provoca reazioni accese. Il Pd si spacca sull’incontro con Renzi, l’arrivo al Nazareno del Cavaliere viene salutato da lanci di uova.

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Tutti pazzi per Bill De Blasio. Come o meglio di Obama?

La forza comunicativa e il successo di Bill De Blasio, neoeletto sindaco di New York, sono tutti nella foto che sta facendo il giro del mondo e che è già simbolo della sua vittoria. Quella in cui abbraccia il figlio Dante: nome italiano, per rendere onore alle origini del papà, e riccioli afro, come la mamma. Un simbolo vivente del Melting Pot della Grande Mela.

Bill de Blasio, il nuovo sindaco di New York

E’ uno scatto che ricorda quello di Barack Obama abbracciato alla moglie Michelle e , volendo, le similitudini tra i due non finiscono qui. Bill e Barack rappresentano le minoranze personalmente, ancor prima che politicamente. Hanno vinto grazie a campagne capillari, potenti, giocate soprattutto sui social network e internet, hanno interrotto anni di egemonie repubblicane. Hanno fatto sognare e, soprattutto, sperare, in una città, in una nazione e, perché no, in un mondo migliore. Per Obama, però, la luna di miele è già finita da un pezzo. Negli ultimi mesi, tra Siria, Datagate, Shutdown e il flop del sito di Health Care, il Presidente si è trovato a fare i conti con un drastico calo di popolarità e con critiche feroci.

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L’America dello Shutdown assomiglia all’Europa. Tra debolezze, populismo e Tortilla

 

Pubblicato su L’Huffington Post il 17/10/2013

Gli Stati Uniti e il mondo intero hanno tirato un sospiro di sollievo. Lo Shutdown è finito. Dopo due settimane di blocco totale la macchina governativa può tornare a funzionare. Il Default è scongiurato e Barack Obama sorride di nuovo. Sembra una lieto fine, ma non lo è. Questi 16 giorni di immobilismo hanno mostrato il nuovo volto di un’America vulnerabile come non mai, economicamente e politicamente, e più vicina all’Europa, persino all’Italia.

Non a caso Enrico Letta, oggi a Washington per incontrare il presidente, ha detto ai microfoni della PBS di “capire bene i problemi di Obama, ne ho anche io a casa. So cosa significa quando ci sono scontri fra fazioni, partiti e individui” e in queste condizioni “non è facile raggiungere accordi politici”. Così anche l’America, dopo essere stata ostaggio dei Tea Party, si scopre terra di falchi e colombe, ma Capitol Hill, ovviamente, non è Montecitorio.

Quello che accade a Washington riguarda il mondo intero. Il colosso a stelle e strisce si scopre fragile e le economie emergenti, su tutte quella cinese, non mancano di sottolinearlo. Oggi un editoriale del China Daily paragonava la crescita locale alla crisi americana e si chiedeva se davvero fosse ancora così conveniente fare affari con gli Yankee, mentre il Wall Street Journal sentenziava “ormai assomigliamo alla Grecia”.

Cosa ne è allora della super potenza, della democrazia che sembrava perfetta? L'”american dream”, forse appannato già da tempo, si stinge sempre più velocemente. Perché se il crac, per il momento, è scongiurato, le divisioni restano. I repubblicani sono stati sconfitti in questa battaglia, che, in fondo, non ha vincitori, ma i Tea Party sembrano decisi a continuare la guerra verso il 2016, anno delle prossime elezioni. “Sono l’emblema di un Paese immobile, bigotto, che ha paura del cambiamento e che proprio a causa delle sue fobie mette a rischio la Nazione”, ha detto l’attore Robert Redford alla Cnn.

L’America torna a temere se stessa, non più il nemico straniero, ma il suo lato più oscuro, quello più ruspante e più cattivo. Persino l’immagine degli accordi segreti tra i Tea Party, guidati dal durissimo texano Ted Cruz, stretti non tra i banchi del congresso, ma tra i tavoli di un fast food mexicano, il Tortilla Coast, è diventato un evocativo tormentone mediatico.

Come a dire: “Quelli che tenevano il mondo appeso un filo pianificavano le proprie mosse tra burritos, patatine fritte e salse piccanti”. Così anche l’America ha la sua nuova frangia politica populista, aggressiva e con grande presa mediatica. Anche in questo sembra assomigliare sempre di più all’Europa.

Angela Merkel, la vittoria straordinaria di una leader normale

Andare al supermercato, soffermarsi tra gli scaffali, magari per scegliere il prodotto a miglior prezzo. Lo fanno tutti, anche le donne più potenti del mondo. Anche quando hanno appena concluso la campagna elettorale e si preparano a guidare per il proprio Paese per la terza volta.

Lo fa Angela Merkel, immortalata dal quotidiano spagnolo El Pais, mentre spinge il carrello della spesa, dopo l’ultimo comizio e con una delle sue ormai iconiche giacche.

La donna forte di Germania, e d’Europa, ha sempre contrapposto al suo potere politico un’immagine pubblica e un modo di comunicare molto semplice, pragmatico e a volte al limite del sottotono.

Guardando le foto delle sue vacanze a Ischia o sulle Dolomiti o la sua esultanza genuina, quasi goffa, durante le partite della nazionale, non viene subito da pensare a una leader, eletta da Forbes “donna più potente del mondo”, o alla prima e più giovane Kanzlerin della storia di Germania.

La scuola in cui ha tenuto una lezione sul Muro di Berlino, durante il 52esimo anniversario della costruzione era la sua cornice perfetta. La parte della professoressa è un ruolo che le calza a pennello. Usa spesso e volentieri il termine Hausaufgabe, cioè compiti a casa, da assegnare con rigore ai paesi europei dalle economie traballanti: Italia, anche, Spagna, Portogallo e Grecia, soprattutto.

Con loro è inflessibile e severa. Per molti spietata.

In patria, dove non a caso è stata ribattezzata Mutti, trasmette fiducia, è più incline alla ricerca del consenso e alla mediazione. Doti che saranno utili anche in una eventuale Große Koalition.

Partiva come favorita, ma in una campagna elettorale che si è scaldata solo all’ultimo non ha comunque brillato. Come già accaduto nel 2005 e nel 2009.

La Merkel è sicura, decisionista, alle parole preferisce i fatti. Da buona scienziata pondera tutto scrupolosamente. Non cerca di sedurre i mass media, non è un’abile oratrice, non graffia l’avversario.
Questa è la sua cifra, nella quotidianità come in politica, e fino a oggi ha funzionato.

Il terzo mandato ha bisogno di qualche cosa di più. Lo scenario politico tedesco è in parte cambiato e il Paese, giovane e sempre più multiculturale, non ha bisogno solo di stabilità, ma anche di nuove prospettive di occupazione, di un ruolo diverso in Europa e in politica estera.

Angela Merkel ha già un posto nella storia europea. È l’unica leader del vecchio continente ad essere stata riconfermata dopo la crisi economica e finanziaria e, con i suoi probabili 12 anni di governo, eguaglia persino la Lady di ferro Margareth Thatcher.

Per essere un capo di Stato davvero fuori dall’ordinario dovrà prendersi qualche rischio, dimostrare di sapersi evolvere, politicamente, ma anche nella comunicazione, e guidare la Germania verso un nuovo corso.

Pubblicato su Huffington Post il 23/9/2013

Un iPhone d’oro e d’argento per sognare la fine della crisi

 

Pubblicato su Huffinton Post l’11/9/2013 

Per molti Cupertino non è solo un luogo fisico, è l’evocazione di un mondo di innovazione, design e bellezza rappresentate da una mela e da un inventore geniale, diventato icona ancora prima di andarsene.
Apple non è solo un marchio di tecnologia, ma un universo a sé e una fabbrica di sogni e -soprattutto- di desideri, non sempre necessari.

Dietro ogni lancio c’è un’attesa spasmodica, preceduta da rumors e supposizioni. E’ stato così anche ieri per la presentazione degli ultimi modelli iPhone5c e iPhone 5s.

Il nuovo sacerdote Tim Cook però non ha l’appeal del compianto Steve Jobs e anche gli ultimi prodotti sembrano sempre più diversi dal padre dell’azienda.

Il neonato iPhone 5c è gommoso e colorato, lontano anni luce dal consueto design minimal. Ricorda un Nokia (ma la rete ha ironizzato anche sulla somiglianza con le calzature Crocs), strizza l’occhio a un pubblico giovane e ai mercati emergenti, su tutti quello cinese dove Apple ha subito una significativa battuta d’arresto.

Lo avevano annunciato come un modello low-cost. Il prezzo italiano non è ancora noto, ma in Francia e Geramania per averlo bisognerà spendere 599 euro. Basso costo, ma non troppo.

Per il modello 5s ci sono invece il Touch ID, per sbloccare lo schermo con un tocco e proteggere dati e informazioni, il nuovo chip A7 e un miglioramento della fotocamera.

Rivoluzione anche nei colori: niente più bianco o nero, ma oro e argento metallizzato. Una svolta un po’ pop che, probabilmente, farebbe storcere il naso a Steve Jobs.

iphone-5S

Ai prodotti Apple sono state spesso attribuite missioni provvidenziali. Ad iTunes toccava ridare ossigeno all’industria musicale, l’iPad avrebbe dovuto risollevare le sorti della, se non morente, di sicuro non in buona salute, editoria. Non è ancora chiaro se ci siano riusciti o no. Ma a guardare il nuovo 5s sembra che la casa di Cupertino voglia lanciarsi in un ancora più ardua impresa.

Quei nuovi telefoni d’oro e d’argento, qualcuno ha detto “grigio siderale” e “champagne”, comunicano una nuova idea di lusso. Un immaginario di benessere e di nuovi consumi che sembra voler dire: “la crisi economica è finita, torniamo a sognare”. E sognare, si sa, non costa nulla. Comprare il nuovo 5s, invece, un prezzo ce l’ha e pure bello alto, soprattutto per i tempo che ancora corrono.

Apple non farà dimenticare la crisi, persino il suo titolo, dopo i nuovi lanci, ha chiuso in borsa con il -2%, ma riesce ancora a distrarre e ad avere gli occhi del mondo su di sè. Ieri milioni di persone se ne stavano lì a guardare la presentazioni dei nuovi smartphone e a commentarne su ogni piattaforma novità e prestazioni. Alla faccia della decadenze, politiche e reali, e dei venti di guerra.

Una barca come altare e una campagnola come papa mobile. La semplicità di una visita papale storica

Una barca diventa l’altare, un timone il leggio. Non ci sono Capi di Stato, ma un prefetto in jeans. Al posto dei porporati e delle musiche sacre, i migranti, anche non cattolici, e le loro canzoni. Uno di loro indossa la maglietta di Che Guevara. La papamobile non c’è, e rimasta in Vaticano. In questo lembo di terra selvaggia ci si muove con una macchina più semplice: una Fiat Campagnola, prestata da un milanese che da 20 anni è un habituè dell’Isola. Solo i sedili posteriori sono stati modificati

La visita a Lampedusa è già di per se un evento storico, ma Papa Francesco l’ha resa ancora più carica di simbolismo e di dettagli che, uniti insieme, diventano l’ennesima dimostrazione della volontà del Pontefice di cambiare il registro della Chiesa. Nei fatti, ma anche nelle parole e nei gesti.

papa campagnola

Per questo viaggio Jorge Mario Bergoglio non ha voluto spese straordinarie e ha chiesto di non stravolgere la quotidianità degli abitanti di Lampedusa. A scuotere gli animi ci sono le sue parole, potentissime, come sempre.

Durante l’omelia si è scagliato contro “la globalizzazione dell’indifferenza, che fa dimenticare le tragedie dell’immigrazione” e ha ricordato come quelle vite spezzate in mare siano per lui “una spina nel cuore”. Concetti ribaditi anche su Twitter, dove ha cinguettato: “Preghiamo per avere un cuore che abbracci gli immigrati. Dio ci giudicherà in base a come abbiamo trattato i più bisognosi”

Perché la rivoluzione del Papa argentino e della sua Chiesa un po’ più spontanea e più vicina alle persone e un po’ più lontana dagli intrighi dello Ior e della Curia, passa, anche, da qui.

Pubblicato su Huffington Post l’8/7/2013

Le lezioni di stile e comunicazione di Kate Middleton

Congetture, previsioni, scommesse. In Inghilterra sala la febbre del Royal Baby, la cui nascita è prevista per metà luglio. Parto naturale o cesareo? Maschio o femmina? In caso di fiocco rosa si chiamerà Diana come la nonna o Elizabeth come la bisnonna? Nel Regno Unito si punta su qualunque cosa, ma questo regale bebè sta già polverizzando ogni record.I sudditi di Sua Maestà non hanno voglia di pensare alla crisi e al governo traballante.

Mamma Kate, dotata di naturale bellezza ed eleganza già prima di diventare principessa, non ha sbagliato un colpo nemmeno in gravidanza. Ovunque vada riesce a catalizzare tutte le attenzioni su di sé e a farsi ammirare.

A una – eventuale – nuova principessina c’è da augurare di ereditare la bellezza, lo stile e, perché no, anche la furbizia della mamma.

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L’ironia sul Quirinale

L’elezione del presidente della Repubblica è cosa seria, anzi serissima. Ancor più in un momento così critico per il Paese. Eppure, tra inciuci, prove generali per alleanze di governo, candidati improbabili e pre-elezioni via web, la corsa al Quirinale ha, a tratti, assunto toni surreali.

Ridere per non piangere, si dice a volte, e questo potrebbe essere il caso. Su internet si scherza. Innanzitutto con l’omonimia tra il Senatore Franco e la showgirl Valeria da cui nascono calembour e fotomontaggi

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Claudia Cardinale, icona del cinema italiano, compie 75 anni

E’ stata la sensuale Angelica de Il Gattopardo, indimenticabile nel suo abito bianco mentre danza il valtzer con Burt Lancaster, la “Ragazza con la pistola”, ma anche quella “di Bube”. Ha vestito i panni della pistolera western e delle coraggiose donne italiane del dopoguerra. Ha interpretato film di Visconti, Fellini, Leone, Bolognini e Zeffirelli. Nel 1993 ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera.

Claudia Cardinale, icona del nostro cinema, compie 75 anni il 15 aprile.

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Tra le grandi dive italiane è senza dubbio una delle mie preferite. Una bellezza sensuale e raffinata allo stesso tempo e una personalissima voce roca.

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Peccato che anche lei abbia ceduto alla tentazione del ritocchino. Soprassediamo in ricordo dei, gloriosi, tempi passati.

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Obama in Israele. Molti simboli, poche proposte e un dubbio (sull’Iron Dome)

Il dubbio serpeggiava già prima dell’atterraggio dell’Air Force One. La visita di Barack Obama in Israele, questa volta in veste di presidente degli Stati Uniti, non prometteva grandi passi avanti nel processo di pace tra lo stato ebraico e quello palestinese. “Farà il turista” avevano malignato in molti. “Venga pure, tanto non concluderà niente”- concordavano, per una volta, arabi e israeliani.

Alla fine il presidente Usa è riuscito a scaldare anche i cuori degli scettici e, soprattutto, quelli dei giovani. Merito della sua sempre efficace retorica, verbale, ma anche fisica, che fa di lui una vera e propria icona. In questo caso merito anche di una scelta sapiente di evocazioni e simboli. Barack Obama ha salutato subito in ebraico, non importata se stentato, ha citato il Talmud, rievocato Pesach e ha indossato la kippah.

Mr. President ha snobbato la Knesset, il parlamento israeliano, e ha preferito parlare all’università di Gerusalemme. Qui è stato accolto come una rockstar da studenti che si sono messi pazientemente in coda per sentirlo parlare e che hanno sommerso di fischi l’unico spettatore che ha osato contestarlo. E’ stato il presidente in persona a redarguirli perché “Questa è la democrazia”, poi ha chiesto ai ragazzi israeliani di “mettersi nei panni dei palestinesi, non è giusto che i loro figli non possano crescere in un loro stato”

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