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Israele, il laboratorio di pace di Beresheet La Shalom

Israele, Galilea, quasi al confine con il Libano. Un gruppo di ragazzi si diverte. Fanno teatro, giocano a calcio, preparano programmi radiofonici in arabo e ebraico. Sono israeliani, ovviamente, ma anche palestinesi, cristiani, Circassi, Drusi e convivono tutti serenamente. A unirli è stata Angelica Edna Calò, ebrea italiana e romana, che durante la seconda Intifada, tra il 2000 e il 2005, ha deciso di creare un’oasi di pace per i bambini di queste terre dilaniate dai conflitti. La fondazione si chiama Beresheet La Shalom e si trova in nel Kibbutz Sasa.
 

“Io e mio marito Yehuda abbiamo cominciato ospitando 12 ragazzi – racconta la vulcanica Angelica – Poi ho conosciuto Samar Sahhar, palestinese cristiana, che da anni si occupava delle ragazze madri. Questo incontro magico ha contribuito a far crescere il mio progetto di pace”. Nel laboratorio di Beresheet i ragazzi imparano a stare insieme divertendosi, restano qui per il tempo delle attività poi ognuno torna a casa sua. Affrontano i temi del conflitto e delle diversità, ormai parte integrante della loro vita, con serenità e senza mai entrare nel dibattito politico.

Siamo educatori, non diplomatici – precisa Calò – e chi frequenta Beresheet deve imparare l’amore e la pace al di là degli odi e delle incomprensioni di chi è al potere”. “Anche durante la crisi dello scorso novembre (quella dell’operazione Pillar of Defense ndr) abbiamo gestito la situazione con il dialogo. Abbiamo parlato del dolore, che è lo stesso da entrambe le parti.L’empatia, la comprensione e il rispetto sono le fondamenta della pace. I nostri giovani ospiti mettono a disposizione dei nuovi arrivati quello che imparano, anche per loro è una missione”. E in tanti anni mai nessun litigio? “No. I ragazzi vivono in un’atmosfera di odio, quando sono qui vogliono lasciarsi tutto alle spalle”.

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“Siamo educatori, non diplomatici – precisa Calò – e chi frequenta Beresheet deve imparare l’amore e la pace al di là degli odi e delle incomprensioni di chi è al potere”. “Anche durante la crisi dello scorso novembre (quella dell’operazione Pillar of Defense ndr) abbiamo gestito la situazione con il dialogo. Abbiamo parlato del dolore, che è lo stesso da entrambe le parti.L’empatia, la comprensione e il rispetto sono le fondamenta della pace. I nostri giovani ospiti mettono a disposizione dei nuovi arrivati quello che imparano, anche per loro è una missione”. E in tanti anni mai nessun litigio? “No. I ragazzi vivono in un’atmosfera di odio, quando sono qui vogliono lasciarsi tutto alle spalle”. 

Negli anni il gruppo di Beresheet La Shalom ha dato vita a moltissimi progetti: spettacoli teatrali presentati in festival internazionali, dibattiti e persino un incontro in Vaticano. “La nostra attività continua a crescere, spiega Angelica perché sempre più persone capiscono l’importanza del dialogo tra i popoli. All’inizio facevamo fatica a trovare collaboratori, non appoggiavano il progetto e preferivano trincerarsi dietro le loro convinzioni e la diffidenza. In tanti hanno tentato di ostacolarci in ogni modo”. Ma sulle gioie e le soddisfazioni di questa donna entusiasta e coraggiosa c’è anche un’ombra. Da tempo non può più contare su Samara. Si è ammalata perché le hanno impedito di gestire la casa di accoglienza per ragazze abusate che aveva a Betania. “L’hanno costretta a chiudere –racconta Calò- per qualcuno la sua opera era troppo scomoda. Ora sto facendo il possibile perché torni ad occuparsi delle sue ragazze, che hanno tanto bisogno di lei”.

E mentre Angelica continua a diffondere i principi di tolleranza e convivenza, Israele ha un nuovo governo, arrivato a due mesi dalle elezioni, dopo estenuanti trattative. “Ormai tutte le forze politiche sanno che si deve trovare una collaborazione – commenta Edna – ma ogni singola persona ha la responsabilità di avviare un dialogo, altrimenti non ne usciremo mai”. Non è un caso, allora, se Beresheet La Shalom significa proprio “Inizio di pace”.

Dieci anni dalla guerra in Iraq. Le icone del conflitto

Il 20 marzo 2003, alle 3.30 ora italiana, con un bombardamento di Baghdad, cominciava il secondo conflitto in Iraq. Oggi il quotidiano inglese The Guardian ripercorre la storia della guerra, segnata dalla contrapposizione tra George W.Bush e Saddam Hussein, attraverso le sue immagini più significative. Raccontano storie e, soprattutto, persone.

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Staff Sergeant Lonnie Roberts cries at a memorial service in Baghdad

Il bacio di Klimt tra le rovine della Siria impazza su Social. Non è un murales, ma photoshop

Da qualche giorno impazza su Twitter, e anche su altri social media, un’immagine evocative e poetica. Ritrae un palazzo siriano sventrato dalle bombe su cui è stato dipinto il bacio di Klimt.

In realtà nessuno è riuscito a riprodurre il celebre quadro nei quartieri devastati di Damasco. Si tratta di un fotomontaggio. Lo ha realizzato Tamam Azzam, artista siriano che da anni vive e lavora a Dubai e usa le sue opere per denunciare i conflitti e le emergenze sociali del suo Paese.

bacio

La sovrapposizione tra grandi opere contemporanee e scenari di guerra è una serie che Azzam ha creato per “sottolineare il parallelo tra le più grandi conquiste dell’umanità e la distruzione che l’uomo è in in grado di infliggere. “Il Bacio’” mostra l’amore e il rapporto tra le persone, è l’ho contrapposto a un simbolo, come un muro distrutto, che rappresenta la capacità del popolo di odiare il regime“, come raccontato al blogger de Il fatto Quotidiano Shady Hamadi

L’artista siriano Tammam Azzam, costretto a fuggire a Dubai lo scorso anno per evitare il servizio riservista nell’esercito.

L’artista è stato costretto a fuggire lo scorso anno per evitare il servizio riservista nell’ esercito. Non crede che l’arte possa salvare la Siria, ma che, almeno, serva a mantenere la speranza di un futuro migliore.